“But… is this a farmhouse?”
Sì, cioè no, be’… dipende dal punto di vista di chi la guarda.
Insomma, non è facile rispondere alla domanda di una famiglia di danesi, di passaggio qui alla Ca’ dell’Alpe per una notte che è poi diventata tre giornate piene. Sì, è una fattoria, certo, con le sue sei papere, i quattro cavalli di razza avelignese, i conigli, le galline, i galli e i pulcini. Gli immancabili cani. E l’orto terrazzato, ricco e grande, proprio sotto al forno a legna. Ma Ca’ dell’Alpe è anche un campeggio in miniatura dentro un castagneto fitto, dove ci vieni con la tenda tua ma se non ce l’hai te la prestano loro (più tre roulotte per chi la prende comoda), un ristorante senza camerieri veri e senza carta, vino o bianco o rosso ma comunque buono, un posto che ti vende la sua verdura appena colta, le olive e l’olio, un luogo da merende all’aperto sui lunghi tavoli di legno con le panche sotto l’incannucciata, un albergo con tre stanze più una casetta in affitto, un posto per incontrarsi e darsi subito del tu oppure del lei, come viene viene che tanto va lo stesso bene.
Bambini tanti, in lotta per le due altalene, a smanettare sul calcetto molto molto usato, a far due tiri a ping pong, a sguazzare nel piscinone da 15 metri x 10 con tanto di scivolo col castello in cima, a frugare dentro il cestone dei giocattoli che c’è in salone, a mangiare per conto loro ai tre tavolini bassi e colorati cose cucinate apposta per loro, su seggioline di legno col gatto intagliato sullo schienale.
Certo, “agriturismo” sarebbe (è!) la definizione ufficiale del progetto di Cosimo e Daniela, milanesi trapiantati qui in alto sulle terrazze liguri a picco verso il mare di Finale, vista quasi aeronautica sulla rocca di Perti. Chi vuole di giorno scende a fare i bagni, una mezz’ora scarsa e sei giù in Riviera a sudare per un parcheggio che ti garantisca l’ombrellone, oppure sale in arrampicata libera sulle 1.200 vie di roccia calcarea che stanno attorno. O magari, molto più quietamente, si gironzola nelle pinete a cavallo, in bici o a piedi per stradine e sentieri col solo rumore dei ruscelli. Le possibilità sono tante e le sere d’estate i paesini dell’entroterra abbondano di sagre in cui abbuffarsi e magari ballare.
Ma dopo un po’ che uno sta qui, l’unica vera voglia è quella di star qui. Lontano dal carnaio estivo, da soli in pace su una sdraio o a chiacchierare con sconosciuti che diventano quasi amici, con i “turisti” e con quelli che salgono a dare una mano per mandare avanti il tutto, non capisci mai bene se per lavoro o amicizia. Finchè finisci col dare una mano anche tu senza che nessuno te lo chieda. Una mano per dire, magari solo a metter in tavola dieci formaggiere per la cena o toglier sassi che il monello di passaggio ha buttato in piscina. Libero di fare o non fare, ma soprattutto libero di essere te stesso; senza che nessuno ti chieda niente, in mezzo a gente discreta e al tempo stessa curiosa di te in modo del tutto naturale (“umano” magari ci starebbe meglio, ma meglio non smielare con la retorica). Seduti fuori in mezzo a cascate di fiori che vengon giù dalle finestre e salgon su da qualunque cosa possa servire da contenitore, piante grandi o microscopiche curate con assiduità ma non leccate come da agriturismo da depliant, vien voglia di chiedere e ascoltare a pezzetti qualche pezzetto di storia di tanti, prima di tutti del sarcastico-instancabile Cosimo e della dolce-instancabile Daniela, una che quando ha tempo fa persino il pane a mano.
Tempo per il pane e per i fiori… ma come si fa a trovare il tempo mentre si manda avanti questo casale (ma sì, anche farmhouse!) che solo otto anni fa era un rudere assediato dai rovi, con in più due bambini arrivati qui piccoli piccoli? E i bambini degli ospiti, per i quali c’è sempre la parola giusta, l’attenzione particolare e un breve sorriso asciutto e caldo, e gitanti che chiedono attenzione come in un bar o in un ristorante “normale” e tocca spiegargli che non è proprio così? Eppure il tempo per tutto evidentemente c’è, con tanto di piccolo miracolo finale: riuscire a dare al pubblico – a tutto il pubblico – l’impressione che il tutto si svolga quasi senza fatica, come in un gioco assolutamente naturale, proprio come fa l’atleta di gran livello, quello che svolge alla perfezione il suo esercizio quasi impossibile e intanto vi sorride, come se la fatica fosse un’invenzione degli altri. Naturale, no?
Marco Gatti